Export e internazionalizzazione nel post Covid: 4 elementi da considerare

export e internazionalizzazione nel post covid-19
La diffusione della pandemia di Covid-19, e le conseguenti misure adottate dai governi per il suo contenimento, hanno determinato una sostanziale contrazione del sistema economico globale sia in termini di domanda che di offerta, generando quella che Gita Gopinath, capo economista del FMI, definisce “la peggior crisi dalla Grande Recessione” del 1929. Secondo Gopinath l’emergenza economica provocata dalla pandemia di Coronavirus causerà “una perdita complessiva per l’economia mondiale di oltre 12.000 miliardi di dollari” fra il 2020 e il 2021.

Le previsioni d’estate della Commissione europea non sono migliori, e anzi rivedono al ribasso la crescita nell’Ue rispetto alle precedenti stime di primavera. Per Bruxelles si tratta di “una recessione ancora più profonda” e con “divergenze più ampie” delle attese.

Un impatto senza precedenti per tutta l’area dell’Unione quindi, ma con sensibili differenze da stato a stato. La Commissione prevede che dopo il colpo ci sarà una ripresa, ma non così alta da far tornare l’economia all’era pre-Covid: il PIL scenderà complessivamente a -8,7% nel 2020, per risalire al 6,1% nel 2021. La ripresa sarà più rapida per i paesi del nord Europa (Polonia, Germania, Finlandia e Paesi Bassi in testa) e più difficile per quelli del sud (Francia, Spagna, Croazia e Italia). I dati peggiori per il 2020 sono quelli che riguardano il nostro paese, ultimo nella classifica della Commissione, con una contrazione del PIL pari a -11,2%.

Un dato che non deve sorprendere e anzi, mette in luce tutte le contraddizioni e le fragilità del nostro sistema economico, che già prima della pandemia faticava ad uscire da una situazione stagnante, fatta eccezione per i dati registrati negli ultimi anni dall’export nostrano. Le ragioni del profondo impatto economico della crisi sul nostro paese non vanno tanto ricercate nell’intensità dell’emergenza sanitaria, seppure l’Italia si sia trovata per prima a gestire la pandemia tra i paesi europei, quanto nella situazione di partenza, che ha aggravato gli effetti del prolungato fermo produttivo della quasi totalità delle attività economiche del paese.

Le politiche nazionali e comunitarie saranno certamente fondamentali per la ripresa, attraverso una serie di misure e finanziamenti introdotti per dare propulsione al paese. Tuttavia, è importante sapere da quale scenario strategico ripartiamo, tenendo presente che l’impatto economico della crisi potrebbe evolvere nel tempo, dato che nelle regioni relativamente più forti la ripresa sarà principalmente collegata alle performance della manifattura e all’export, mentre in quelle più deboli all’andamento del terziario. Rispetto a precedenti episodi recessivi, il terziario è stato colpito tanto quanto l’industria manifatturiera, e di conseguenza non potrà svolgere un ruolo di “spugna” occupazionale e sociale, come successo in passato. Al contrario, alcuni dei suoi comparti, in primo luogo le filiere della cultura-intrattenimento e del turismo-viaggi, sono tra quelli che registrano i dati più allarmanti, con tutto quello che ne consegue in termini di occupazione e incertezza rispetto alla ripresa futura.

Una situazione complessa, dove è impossibile fare delle previsioni e l’incertezza continua a dominare in tutti gli scenari possibili. Tuttavia, è importante tenere in considerazione almeno 4 elementi per affrontare i mesi a venire, al fine di gestire nel miglior modo possibile le difficoltà determinate dalla pandemia.

1. Italia: caratteristiche e contraddizioni del Bel Paese

L’Italia è una delle otto principali economie mondiali, ma tra queste è anche quella che negli anni è cresciuta meno. Guardando poi all’export, l’Italia si piazza in ottava posizione tra paesi esportatori considerando la quantità, ma sale al secondo posto, dopo la Germania, se consideriamo le esportazioni pro-capite. Questo significa che siamo un paese esportatore tra i più forti, ma che paghiamo il prezzo di una serie di fattori strutturali e di contraddizioni interne, tra cui certamente la parcellizzazione del tessuto economico, dove le micro imprese rappresentano circa il 95% della totalità delle realtà produttive italiane. A questo si aggiunge una fortissima propensione al risparmio ed una generale tendenza alla cautela, sia in termini di spesa che di investimento, dovute da una parte alla diffusa sfiducia nel sistema politico e amministrativo italiano, e dall’altra alla drammatica assenza di riforme strutturali, che il paese attende da anni. Quel che ne consegue è che negli ultimi 25 anni la capacità produttiva italiana si è ridotta di un quarto e, pur essendo un paese che ha fatto della manifattura e del ‘made in Italy’ uno dei suoi fiori all’occhiello, nel tempo ha perso terreno sui mercati e ridotto la sua capacità di innovazione e di competitività.

L’unica variabile positiva registrata negli ultimi dieci anni è rappresentata dall’export, e non è un caso che oggi il tema torni alla ribalta e venga messo al centro delle scelte politiche e di investimento a sostegno del paese.

2. Made in Italy: un brand dall’enorme potenziale

Dal secondo dopoguerra in poi, il “Made in Italy” si è confermato come un marchio che garantisce qualità, autenticità e senso dello stile e, dopo Apple e Coca-Cola, è considerato il terzo brand più famoso al mondo. Un potenziale enorme, che un numero crescente di imprenditori è riuscito, nel corso dei decenni, a legare ad un concetto di high value apprezzato ovunque. Mescolando l’estetica iconica italiana con la tecnologia e l’innovazione, il valore del “Made in Italy” ha garantito a molti prodotti prosperità sui mercati, contribuendo a mantenere la solidità dell’economia nazionale.

Smentendo le previsioni di molti economisti, la manifattura e l’export italiano hanno in parte retto alla globalizzazione e all’ingresso della crescente produzione a basso costo dei nuovi competitor asiatici. Anche se la crisi finanziaria e il conseguente indebitamento hanno gravemente minato il quadro economico italiano, sono numerose le imprese che sono riuscite a mantenere il primato nel settore delle esportazioni, nonostante un importante (e costante) calo della produttività e un tasso di crescita perennemente intorno allo zero.

3. La necessità di un approccio manageriale: cosa manca nel nostro paese

Con la crisi da Covid-19 sono venuti al pettine i veri nodi endemici che penalizzano il nostro sistema paese: da un lato sicuramente la parcellizzazione in migliaia di micro imprese e la sostanziale carenza di capitalizzazione, dall’altro una scarsa cultura manageriale dell’impresa italiana, dove l’imprenditore ancora oggi coincide spesso con il top management e con molte delle figure organizzative apicali.

La maggior parte delle imprese italiane ha sempre adottato una politica manageriale empirica, basata sulla progressiva esperienza sul campo, mentre oggi la complessità dei mercati e il post Covid-19 portano con sé la necessità, e non solo l’opportunità, di internazionalizzarsi, e di farlo con metodo. Se poi all’empirismo (che fino ad oggi ha dato i suoi frutti) aggiungiamo anche una sorta di cronica mancanza di predisposizione alle regole e in generale al metodo, si comprende come uno dei paesi con una struttura industriale, manifatturiera, più forte al mondo, perda comunque competitività e faccia fatica a valorizzare appieno ciò che da ogni dove ci viene riconosciuta come la nostra capacità di produrre, di innovare e realizzare prodotti.

Ora, se questo oggi è maggiormente comprensibile a seguito della perdurante crisi che non consente di fare investimenti, occorre però sottolineare con evidenza la sempre maggiore inadeguatezza delle competenze manageriali rispetto al mutare dei mercati.

Per un sistema industriale troppo spesso product oriented (dove era sufficiente trovare un importatore/distributore per paese e il problema di esportare era quasi risolto) è necessario un cambio di rotta: oggi il “solo” prodotto non è più sufficiente per competere. Il Covid-19 ha messo a nudo l’incapacità di internazionalizzarsi, ovvero il riuscire a valorizzare un prodotto in considerazione del mercato che si intende servire. Vendere sui mercati internazionali oggi significa adottare politiche di internazionalizzazione, e non più solo di esportazione.

Oggi, e sempre più in futuro, non compete il prodotto, ma l’azienda e più in generale il sistema locale a cui appartiene. Questo è un passaggio culturale dirimente, per l’impresa, per i sistemi locali, per il territorio. All’Italia non manca capacità imprenditoriale, ovvero fare impresa, produrre con qualità, innovare il prodotto. A noi manca la capacità di gestire il cambiamento, di adeguare il prodotto al mercato, di adeguare l’azienda al paese dove si va, di “vendere” il territorio su cui l’azienda insiste, di abbracciare la digitalizzazione e un concetto molto più ampio di ‘esportazione’: l’internazionalizzazione.

4. Il mondo è cambiato: export e internazionalizzazione in un ambiente ‘VUCA’

Con la crisi di Covid-19, il concetto di VUCA è tornato sul campo di battaglia come strategia contro un nemico invisibile che sta distruggendo l’economia e cambiando radicalmente la vita in tutto il mondo. Tradizionalmente, VUCA è sinonimo di Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity e descrive situazioni complesse, come quella attuale, in cui le condizioni possono variare tanto velocemente quanto l’ambiente che le circonda. Una leadership di successo richiede una visione positiva di VUCA, il cui acronimo viene modificato in Vision, Understanding, Change, Agility.

VOLATILITA’ vs VISIONE: Contrastare la volatilità con la visione significa cercare di definire obiettivi a medio lungo termine, fissando una meta e lavorando in maniera strutturate per raggiungerla. Questo deve essere tradotto in un aumento di flessibilità: è necessario ripensare alla propria struttura organizzativa, alle risorse e alle competenze che mettiamo in campo, senza lasciare spazio all’improvvisazione. Significa porsi degli obiettivi concreti in termini di volumi e fatturato per dare una dimensione agli investimenti necessari per supportare lo sviluppo, coinvolgendo i nostri partner, italiani ed esteri, in una comune visione.

INCERTEZZA vs COMPRENSIONE: affrontare l’incertezza con la conoscenza e la comprensione dell’ambiente che ci circonda, ovvero raccogliendo e analizzando le informazioni relative ai mercati internazionali, al fine di adottare strategie mirate che possano ottimizzare gli investimenti. Prevedere come andranno i singoli mercati è difficile, ma la lettura ragionata delle informazioni ci aiuta a scegliere: i mercati obiettivo devono essere studiati a fondo, sia da un punto di vista economico che culturale. Analisi di mercato, trend, abitudini di consumo, concorrenza, ma anche storia, tradizioni, lingua: elementi fondamentali per approfondire il livello di ‘Understanding’ di un mercato.

COMPLESSITA’ vs CAMBIAMENTO: contrastare la complessità con il cambiamento impone un atto di coraggio, poiché richiede di compiere scelte, affrontare nuove sfide, con proattività e determinazione, abbandonando strade sicure e abituali in virtù di ciò che realmente è necessario al nostro business. Il cambiamento può riguardare molti ambiti, dall’assetto organizzativo, al modello di business, alla strategia da applicare. Abbracciare il cambiamento è un atto coraggioso perché introduce novità che scardinano abitudini, modus operandi consolidati, tradizioni… ma è spesso un elemento chiave per garantire la prosperità del proprio business.

AMBIGUITA’ vs AGILITA’: contrapporre l’agilità all’ambiguità significa saper decidere in condizioni non stabili, dove le regole non sono sempre chiare e l’ambiente si può modificare in continuazione. Essere agili significa approcciare un mondo ambiguo con innovazione, flessibilità e resilienza. Significa orientarsi verso modelli organizzativi fondati sulla responsabilità e i risultati, valorizzando così le competenze e la proattività delle risorse umane.

Un articolo di Giovanni Roncucci

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